In Afghanistan ci sono andato nel 1978, quando invasioni e guerre sanguinose erano ancora lontane a venire.
Ne ho percorso le città, immobili in un tempo quasi medioevale, separate da paesaggi duri, aspri,
che esplodevano improvvisamente in piane verdeggianti.
Come i volti corrugati degli uomini che l'abitavano; l'avevano stampata in volto la fiera geografia di quei luoghi:
increspature aride che si arrendevano a lussureggianti distese di sorrisi.
Una stregoneria. La stessa, forse, che aveva catturato Alighiero Boetti...
Da allora nessun ritorno, tranne che con la memoria.
Finchè un giorno, sentendo parlare di una piccola comunità afghana a Torino, ho pensato di incontrarla e di rendere omaggio a quel paese e al suo popolo.
Ogni scatto di questo mio nuovo progetto fotografico è la sintesi di una storia.
Senza falsa retorica, ho provato a raccontarne un viaggio inverso al mio.
La fatica dell'accettazione, il timore della diversità, il persistere della propria invisibilità: è tutto scritto sulla pelle di volti e mani che ho voluto ritrarre nell'atto della loro inossidabile, necessaria operosità.
Mani forti e competenti, mani precise o delicate, mani screpolate o protettive, mani per custodire un nuovo nato, il primo torinese di genitori afghani...