HYSTORY OF VIOLENCE

Corpi apparentemente morti, vittime di una qualche violenza subìta nel proprio spazio domestico.
La loro identità? Irrilevante. Lo suggerisce la scelta di non mostrarne mai il volto, pratica dalla quale si articola
il graduale smantellamento delle convenzioni tradizionali del ritratto. Ma nemmeno la mano dispensatrice di morte, nemmeno l'arma del delitto costituiscono i punti focali della quest del fotografo. Protagonista, piuttosto, è la luce: affilata e tagliente come una lama, penetra subdola da un altrove lontano fino a squarciare il velo della paura.
Non della morte in sé, piuttosto di quella detestabilissima indifferenza nei suoi confronti, risultato di una saturazione evidente della morte spettacolarizzata dai media. Nella sua qualità seriale, History of Violence è catalogo
e al contempo indagine disciplinata: la certezza della finzione (si tratta di una morte recitata) rifrange tutta l'ambiguità del reale, sicché la pervasiva cifra drammaturgica della narrativa solleva questioni sia sulla "fedeltà"
della fotografia nel suo processo traduttivo della realtà, sia sull'immutabilità della morte in quanto atto.
Questi scatti assolvono, così, a una duplice funzione: da una parte sono memento mori, dall'altra si fanno strategia traduttiva, tecnica personale per scendere a patti con il pensiero stesso (e la paura) del morire.

(2010 - Daniela Fargione/Lingua e Letterature anglo-americane/Università di Torino)



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Articolo pubblicato su Altre Modernità, Rivista di studi letterari e culturali dell’Università di Milano >