NUDI

Presentazione di Monica Trigona


Più o meno attorno alla metà del XIX secolo furono prodotti i primi ritratti fotografici della storia. Gaspard-Félix Tournachon, in arte Nadar, fotografava i celebri personaggi del suo tempo, dal politico-scrittore Pierre Clément Eugène Pelletan al compositore Gioacchino Rossini, dal giornalista, Pierre Jules Théophile Gautier allo scrittore Alexandre Dumas (padre). Étienne Carjat, suo contemporaneo, giornalista e disegnatore, non fu da meno, immortalando, tra gli altri, un giovanissimo Arthur Rimbaud ma anche Charles Baudelaire, il pittore Léon Barillot, il compositore Georges Bizet ecc…

L’immagine fotografica non sembrava altro che una traslazione della raffigurazione pittorica su carta fotosensibile.

La posa era la medesima, frequentemente col busto di tre quarti, l’espressione era consapevole dello scopo finale, il perdurare nel tempo della propria immagine (e del proprio ruolo politico, culturale e sociale) e persino i morbidi effetti tonali conferiti dall’artista-fotografo facevano pensare a dipinti ad alto tasso di realismo.

Allo stesso periodo risalgono i primi scatti di nudi femminili, dalle pose stereotipate, che strizzavano l’occhio alla pittura neoclassica. Anche il corpo maschile partecipava alla nuova forma d’arte, basti pensare al fotografo tedesco Wilhelm von Gloeden, che operò a Taormina alla fine del XIX secolo. I suoi giovinetti nudi rimasero celebri per i continui rimandi agli stereotipi dell’antica Grecia oltre che per le pose variamente ammiccanti.

Nel XX secolo, il secolo delle Avanguardie artistiche, immortalare in vario modo il corpo divenne poi una pratica consolidata, a partire da Man Ray, passando per Rafael Navarro e Robert Farber, solo per citare due noti virtuosi del mezzo, sino a Robert Mapplethorpe, rimanendo in ambito strettamente fotografico.

Il corpo senza vesti è stato, ed è tuttora, “argomento d’indagine” dell’obiettivo in tutte le sue forme e sfumature grazie anche allo sviluppo di nuove tecniche:

lo è nella sua essenza plastico-scultorea, nella sua connotazione più sensuale ed erotica, nel suo rimando a geometrie astratte, nella sua esasperata idea di perfezione, nel suo inarrestabile processo di evoluzione e di decadimento ecc..

Al di là dell’utilizzo del ritratto fotografico per finalità sociali o documentaristiche e delle varie rappresentazioni della nuda fisicità umana, è innegabile che lo scatto abbia permesso di visualizzare l’uomo e la donna in modo nuovo, di restituirne un’immagine inedita, a volte estremamente analitica e particolareggiata, a volte scioccante e provocatoria, altre volte ai limiti della poesia, con effetti di puro lirismo.

Al giorno d’oggi, forme di “pittorialismo” convivono assieme a nuovi approcci e specifiche forme di ibridazione tra mezzi diversi, basti pensare, ad esempio, allo stile classico dei ritratti di Irvin Penn e all’approccio originale degli autoritratti di Cindy Sherman dove lei stessa si cala ironicamente in ruoli diversi stimolando lo spettatore ad immaginare delle storie.

La libertà creativa e la diffusione del “prodotto” fotografico è immensa ed è favorita dalla sua tecnologia tanto quanto dalla sua riproducibilità.

Pare quindi che tutta l’esistenza umana, la sua forma visibile, possa essere esplicitata, eternata ma anche creata ad hoc a soddisfare un bisogno di racconti visivi di cui la nostra società è ingorda.

Cosa rimane da rendere ancora manifesto? Verrebbe da chiedersi.

Una risposta potrebbe essere: la semplicità insita nella vita stessa e nei suoi protagonisti colti nei loro semplici gesti, nelle loro abituali espressioni come anche nei loro momenti fortuiti.

 

 

Sta allora all’abilità del regista che è al di là dell’obiettivo carpire con destrezza, talora con una certa sfrontatezza, quegli attimi di comunicazione spontanea e repentina per perorarli nel tempo e rammentarne a tutti l’esistenza.

I dittici intitolati “Nudi” di Claudio Cravero sono una sottile riflessione attorno a ciò che accade, più o meno inconsapevolmente, sui volti di alcune persone colte in situazioni che mutano drasticamente da uno scatto all’altro.

Soggetti di diversa provenienza, estrazione e sesso si sono prestati ad essere immortalati dapprima con i propri vestiti addosso, successivamente completamente nudi.

La figura centrale, protagonista su un fondo neutro, non porta in scena altro elemento al di fuori di sé. Gli indumenti, laddove sono presenti, non appaiono poiché lo spazio visibile si chiude sul collo.

Questi “primissimi piani” sembrerebbero due scatti semplicemente consecutivi.

Eppure, se si osservano in modo più attento le due immagini che compongono ogni lavoro, si coglie che qualcosa ha provocato uno scossone emotivo, più o meno grande, più o meno consapevole.

Uomini e donne guardano direttamente in macchina permettendo a chi li osserva di scrutarli da vicino e di metterli metaforicamente “a nudo”. Il fruitore ignora che essi siano realmente privi di vesti in una foto che compone i doppi ritratti. Non sa se e quanto essi si siano sentiti vulnerabili e violabili.

D’altra parte, la rigorosa costruzione di ogni scena non fa che rassicurare circa la presunta “normale” circostanza a monte di ogni scatto.

La luce che illumina i volti è naturale e determina talora effetti di chiaroscuro affatto forzati, semplicemente veritieri, mentre i colori oggettivi dell’incarnato e dello sfondo conferiscono un effetto realistico e concreto.

Solo le piccole smorfie, gli sguardi sfuggenti, i movimenti lievi, le espressioni che si fanno più o meno convinte rivelano che la rappresentazione è andata oltre l’estetica dell’immagine per insinuarsi in un emisfero altro, più personale, quello che riguarda la psiche degli uomini.

Queste facce, così familiari e spontanee, prive di trucco e di ritocchi, più persone insomma che personaggi, sono disarmanti per l’immediato contatto che creano con chi li contempla.

I loro sorrisi aperti, la loro capacità di controllo, motivata forse dalla voglia di mettersi in gioco nonostante l’imbarazzo provocato dalla nudità dinanzi al fotografo, ma anche il loro cedere all’emotività, chi più, chi meno (perché in fondo si è fatti di sentimenti ed emozioni), sono tutte caratteristiche che una macchina da sola non saprebbe cogliere.

L’artista, il suo medium e il soggetto diventano un inscindibile trio, le cui azioni e reazioni producono il risultato finale, frutto di uno sforzo sinergico.

Cravero non si sbilancia, tace qualsiasi indizio salvo ricercare la mimica caratteristica del volto da immortalare.

Egli vuole andare molto vicino alla verità delle persone e di continuo pare interrogarsi sul significato dell’apparenza, della vita, reale e immaginata, e della fragilità che aleggia in dentro ogni certezza. Lo fa attraverso un linguaggio così semplice, estetico, d’immediata comprensione, che lascia anche lo spettatore più spregiudicato con tanti interrogativi in testa. L’arte, così come la intendeva Joseph Beuys, esplica allora la sua funzione di strumento di conoscenza, di apertura e di svelamento, capace di aprire strade e suggerire percorsi altrimenti ignoti.



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